LA “NEW ERA” DELL’OPERA DI ROMA PROSEGUIRÀ ALLA  WIENER STAATSOPER. SENZA FERMARSI
23 Nov
6:08

LA “NEW ERA” DELL’OPERA DI ROMA PROSEGUIRÀ ALLA
WIENER STAATSOPER. SENZA FERMARSI

di MONALDI & SORTI

Il Teatro dell’Opera di Roma e quello di Vienna: cos’hanno in comune? Loro, le carmelitane di Francis Poulenc (1899-1963): i Dialogues des Carmélites, ispirato al dramma di Georges Bernanos. Al debutto di domenica prossima seguirà l’allestimento della Wiener Staatsoper a maggio. E per restare in Mitteleuropa, è previsto un appuntamento anche a Budapest (saltata la data di febbraio, si attende il nuovo calendario). Il dramma delle martiri di Compiègne sta dilagando: seguiranno a Liegi l’Opéra royale de Wallonie (primi di giugno), un paio di settimane più tardi l’opera di stato bavarese a Monaco. E mentre sono ancora fresche le produzioni di Zurigo (gennaio scorso) e Hannover (ottobre), si scaldano i motori oltreatlantico: a New York, dove a  gennaio prossimo tornerà al Metropolitan la classica versione di John Dexter, con la deliziosa Sabine Devieilhe che dopo il lancio nel ruolo di Blanche alla Wiener Staatsoper, debutterà al Metropolitan nei panni di Constance.

Nel decennio passato i Dialogues a Vienna sono stati piuttosto di casa al Theater an der Wien (2008 e 2011), grazie allo strepitoso successo della première televisiva, frutto della stretta collaborazione tra ORF e Bertrand de Billy, il direttore d’orchestra parigino insignito della Legion d’Onore sia in Francia sia in Austria, che ora porta le sue carmelitane alla Staatsoper della capitale asburgica.

Il motivo di tanta affezione? Malgrado i nomi francesi di Poulenc e Bernanos, tutto è basato sul romanzo della baronessa tedesca Gertrud von Le Fort (1931). Perfino la protagonista, Blanche de La Force, unico personaggio inventato nella storia vera delle 16 carmelitane martiri di Compiègne, beatificate nel 1906, deriva il suo nome probabilmente dal tedesco blanke Angst, “paura assoluta”, con cui l’autrice ha voluto connotare il carattere della sua protagonista di fronte alla vita e alla ghigliottina.

L’opera di Francis Poulenc non mostra nessuna delle passioni umane solitamente trattate a teatro, come l’amore o la brama di potere, ma il suo centro è la paura e la ricerca di superarla. Poulenc fu affascinato da questo tema insolito e lavorò ossessivamente all’opera commissionata per la Scala di Milano a partire dal 1953.

“La paura, la vera paura”, scrisse Georges Bernanos, ”di tutte le follie di cui siamo capaci, è sicuramente la più crudele. Nulla la eguaglia in ferocia, nulla può resistere al suo assalto”.

Per Blanche de la Force la vita è paura: nel 1770, il giorno delle nozze del Delfino, sua madre era stata travolta da un tumulto di popolo. Il trauma indotto dal terrore le causa un parto prematuro, e muore dando alla luce la piccola Blanche. Nel 1789, anche Blanche viene coinvolta in una folla inferocita. L’esperienza la incoraggia a entrare nell’Ordine delle Carmelitane. La priora, Madame de Croissy, mette in guardia dal prendere il velo solo per paura del mondo. Ma il nome religioso che Blanche desidera – “Blanche von der Todesangst Christi”, ossia “Bianca di Gesù mortalmente angosciato” – la commuove, perché anche lei un tempo voleva prendere quel nome. Blanche ha il permesso di rimanere. Nel frattempo scoppia la rivoluzione e i conventi vengono sciolti. Le suore giurano di morire per la loro fede, se necessario. Blanche fugge quindi dalla comunità. Ben presto le consorelle vengono condannate a morte. Sulla via dell’esecuzione cantano il Salve Regina (nella realtà storica era il Laudate Dominum). Poi Blanche torna da loro, riprende il canto ed è l’ultima a salire volontariamente sul patibolo: Die Letzte am Schafott, come suona il titolo della von Le Fort, l’ultima sul patibolo, appunto.

Come abbiamo visto nel precedente articolo, l’ultima sul patibolo fu in realtà la giovane priora, che doveva dare conforto alle sue figlie spirituali, compiere la missione affidatale dall’Agnello, prima di librarsi all’incontro celeste con lo Sposo al quale aveva composto poesie e canti offrendosi in totale sacrificio d’amore.

Ma il tema che interessava i tre autori (von Le Fort, Bernanos e Poulenc) che si sono cimentati con questa storia l’uno sulla scorta del precedente, è la paura, il terrore protagonista del “Grande Terrore” della rivoluzione francese, denominazione con cui passarono alla storia i terribili mesi e anni di lavoro della ghigliottina, il nuovo “strumento umanitario” (ahi, la nera forza delle parole bugiarde!) di cui i rivoluzionari andavano fieri.

E quindi, per rendere la paura protagonista assoluta del melodramma, qualcosa andava pur inventato. Nel libretto si riflettono i commoventi scavi psicologici che Poulenc fece su queste donne straordinarie. Il centro della composizione è quindi la parola, la conversazione. Con la guida differenziata delle linee vocali e il sottile trattamento orchestrale, Poulenc ritrae la paura, la disperazione, il coraggio e la devozione a Dio con chiarezza testuale. Ma anche con una vena di incomprensione per quello che a lui – tormentato omosessuale in ravvicinamento alla fede ogni volta che era stato colpito dalla morte di un amico (ebbe lutti ripetuti) – pareva fanatismo religioso.

Andiamo dunque a scavare nei fatti storici le eventuali radici di questo tema centrale della paura che fa da protagonista nella finzione.

Quattro (su 19) erano le consorelle la cui vocazione era stata lenta e sofferta: «per chiamata» e non «per attrazione», come ci informa il resoconto di suor Maria dell’Incarnazione, che annovera anche se stessa tra queste quattro.

Le priore, quando scorgevano tali dubbi, elargivano un più lungo periodo di noviziato: dal regolare anno e mezzo fino a tre e, in un caso, perfino cinque anni. V’era, come detto, anzitutto lei, suor Maria dell’Incarnazione, nelle cui vene scorreva il sangue regale degli Orléans: da giovanetta, ammalatasi a morte, aveva fatto voto di clausura se fosse guarita. Guarì e tenne fede, ma con poca voglia e fu con confessata repulsione che recitò l’atto quotidiano di olocausto col quale il convento per due interi anni prima del martirio si offrì in olocausto all’Agnello «per placare il Terrore». Tuttavia Cristo non costringe nessuno e non solo fu risparmiata dal martirio, ma senza di lei non sapremmo quasi nulla delle sue compagne martiri. Bene dunque così.

Poi c’era la nobile madame Chrétien de Neuville, in clausura col nome di Luisa di Gesù, che da giovane era stata avversatrice sfegatata di chiostri, suore e abiti monastici. Perduto prematuramente l’amatissimo sposo e rimasta senza un baricentro, era caduta in profonda crisi. Un incontro con Madame Louise, l’ultima figlia di Luigi XV (fattasi carmelitana malgrado gli ostacoli frapposti dal regale padre) l’aveva rassicurata: la principessa di casa reale, in religione madre Teresa di Sant’Agostino, le aveva detto, quando era ancora inconsolabile vedova, che vedeva in lei i germi di una vera vocazione e bisognava solo lasciare tempo al tempo. Infine scoprì che l’unico “centro di gravità permanente” è Cristo. Si era quindi decisa per il convento (all’epoca si pensava ancora che la suprema vocazione fosse quella alla vita consacrata), ma alla preghiera quotidiana di offerta in olocausto la si vedeva tremare dalla testa ai piedi. Il tremore svanì all’arrivo alla prigione della Conciergerie, tre giorni prima del martirio. Scrisse di getto cinque strofe sulla musica della Marsigliese. Ecco la prima:

Livrons nos cœurs à l’allégresse,
Le jour de gloire est arrivé;
Loin de nous toute faiblesse,
Voyant l’étendard arrivé
Voyant l’étendard arrivé
Préparons-nous à la victoire;
Marchons tous en vrai conquérant,
Sous les drapeaux d’un Dieu mourant;
Courons, volons tous à la gloire;
Ranimons notre ardeur,
Nos corps sont au Seigneur.
Montons, montons à l’échafaud
Et rendons-Le vainqueur.

Traduzione:

Diamo il nostro cuore alla gioia, / Il giorno della gloria è arrivato; / Lungi da noi essere deboli, Vedendo giunto lo stendardo (cioè lo stendardo dell’Agnello pasqualePrepariamoci alla vittoria; / Marciamo tutti come veri conquistatori, / Sotto le bandiere di un Dio morente; / Corriamo, voliamo tutti verso la gloria; / Ravviviamo il nostro ardore, / Il nostro corpo è del Signore. / Saliamo, saliamo sul patibolo / E rendiamo Dio vittorioso.

Le altre due carmelitane martiri che avevano avuto una vocazione difficile erano una delle due decane e la “suora filosofa”. Alla decana (classe 1715), suor Carlotta della Resurrezione (al secolo Mme Thouret), da ragazza piaceva da matti ballare, tanto che scappava di notte da casa, finché una notte a un ballo assistette, raccontò ella stessa, a un evento così tragico da farle fare voto di non ballare mai più e, con l’aiuto del Signore, di lasciare il mondo «costi quel che costi» per chiudersi in convento. Non si sa niente di più del drammatico fatto che le fece cambiare vita, ma rimase tanto incline alla gaiezza da sentirsi chiedere un giorno dalle consorelle perché avesse scelto la clausura. In convento era adibita all’infermeria, ma visto che si stava incurvando fu destinata alla pittura: purtroppo però la stanza per dipingere era senza finestre e le esalazioni di metalli tossici la resero, tra molte sofferenze (i metalli pesanti provocano potenti nevralgie e distruggono l’intestino) trasognata e silenziosa. Quando a 79 anni, seduta con le mani legate dietro la schiena sul carretto insieme alle altre, giunse alla Conciergerie (l’anticamera del patibolo), non riuscì a scendere da sola e i rivoluzionari la lanciarono giù facendone strazio sul selciato. Rimasta lì come morta, si risvegliò solo alle grida di donne furiose contro il pendaglio da forca reo dell’inutile crudeltà: girò il viso frantumato e insanguinato per ringraziare il suo massacratore di non averla uccisa sottraendole la gioia e l’onore di testimoniare l’Agnello col martirio collettivo.

Ultima consorella dallo spirito irrequieto fu Madame Brard, come religiosa Eufrasia dell’Immacolata Concezione: nome già molto battagliero per l’epoca. In Francia si attendeva infatti da quasi 5 secoli che il papato si decidesse a proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, dopo che Parigi nel 1305 era stata teatro della vittoriosa dimostrazione di Duns Scoto (nella celeberrima disputa contro i domenicani) che la Madonna era stata concepita senza peccato originale.

Personalità orgogliosa e tormentata dall’ansia, suor Eufrasia soffriva di gelosia verso la priora, che era stata eletta due volte malgrado fosse molto più giovane di lei. La conversazione era vivace, dotta e accattivante, tanto che Maria Leczinska, la consorte polacca di Luigi XV, in una delle frequenti visite al Carmelo (l’ultimogenita si sarebbe fatta poi carmelitana) l’aveva soprannominata la “suora filosofa”. Suor Eufrasia intratteneva corrispondenza con diversi religiosi. Un suo direttore spirituale ebbe a dire che la sua anima era di quelle che avevano infinitamente bisogno di umiliazioni per essere salvate. In una lettera a suor Maria dell’Incarnazione dopo la chiusura del convento ad opera dei rivoluzionari suor Eufrasia confessa di aver finalmente «veduto il precipizio di gelosia e orgoglio» in cui era caduta, e sperava – ben lontana da lei ogni paura di morire per opera della falce rivoluzionaria – che il Signore esaudisse presto il voto di olocausto affinché potesse smettere di ferirlo. Con le altre sul carretto verso il patibolo, si accorse di una ragazza che le seguiva timidamente, affascinata dai loro canti: suor Eufrasia allora le allungò in dono il proprio breviario. Quel dono estremo si è conservato fino ai primi del Novecento, quando si perse a causa di leggi anticlericali: quella ragazza diciannovenne, Thérèse Binart, si fece poi suora col nome anch’essa di Eufrasia, in ricordo della sua benefattrice morente, e divenne fondatrice di un convento a Parigi.

 

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