di MONALDI & SORTI
“Rivestitevi dell’armatura di Dio”, diceva San Paolo. Emma Dante coglie in pieno l’aspetto fondamentale della fede cattolica, la santità è lotta incessante, e veste le sue carmelitane assemblando ispirazioni dall’iconografia religiosa del gotico internazionale. Le sue suore ricordano i soldati romani che convertendosi guadagnavano il martirio e la santità: fasciate in abiti-corazza di stoffa metallizzata, calzano un elmetto sormontato da un’aureola grigio-ferro che ricorda tanto, per disegno e angolatura prospettica, quelle dorate di Masaccio. I santi sono i grandi lottatori di Cristo: questi costumi parlano chiaro.
La regista siciliana, ora in scena all’Opera di Roma, coglie così la caratteristica principale delle martiri carmelitane di Compiègne, sia nel capolavoro di Poulenc che nella storia vera: l’essere guerriere. Come altro definire onestamente donne che ogni giorno per due anni pregano Dio di placare il Terrore della rivoluzione francese, e per questo si offrono spontaneamente a “seguire l’Agnello” in sacrificio di redenzione?
Nei Dialogues des Carmélites si percepisce ancora l’appartenenza di Poulenc al Gruppo dei Sei formato con Jean Cocteau ed Eric Satie, il suo atteggiamento anti-romantico nemico di ogni sentimentalismo afoso, e la predilezione per una lucida chiarezza e una precisione infallibile nei dettagli, che a volte ricorda Kurt Weill. A maggior ragione in quest’opera, il cui tema è incompatibile con le melodie un po‘ compiacenti a cui Poulenc spesso ricorre nel repertorio profano.
L’interpretazione di un tema così spartano richiede naturalmente protagonisti di grande presenza scenica, e sopraffina declamatoria musicale. Le sedici carmelitane martiri di Compiègne erano davvero delle guerriere, e lo provarono chiaramente al mondo ben prima della condanna a morte, già con le loro storie individuali di lotta. Lo provarono fino alla fine, non solo con i fatti, ma anche – e qui Emma Dante ha avuto un autentico guizzo profetico – con l’abbigliamento.
La rivoluzione francese aveva proibito ai religiosi di vestire in pubblico i loro abiti, aveva chiuso i conventi e aveva costretto le comunità monacali a disperdersi in alloggi di fortuna abbigliate con vesti civili. A tale sorte non sfuggirono le carmelitane. Cacciate dal convento di Compiègne il 14 settembre 1792, giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, cioè della fede nel patibolo come vittoria della Vita sulla morte, si trasferirono in camere d’affitto a gruppetti di 2-4 suore. Restarono però sempre in contatto, mantenendo la quotidiana vita di preghiera comunitaria. Avevano ricevuto un solo abito a testa, che usavano per uscire.
Sorprendentemente tuttavia, quando, meno di due anni più tardi, salirono sulla ghigliottina, i presenti e i compagni di prigionia alla Conciergerie le videro vestite dei loro abiti monacali: tunica marrone e il classico mantello carmelitano del profeta Elia, il profeta del Monte Carmelo. In testa però non avevano il velo, bensì solo il soggolo, che le suore avevano provveduto a privare della parte sotto la gola per farne cuffiette adatte alla ghigliottina, in quanto lasciavano scoperto il collo. La modifica era stata fatta dopo aver accolto la proposta della priora, madre Teresa di Sant’Agostino, di recitare l’atto quotidiano di olocausto per placare il Terrore. Nessuna di loro voleva che, se davvero fossero salite sul patibolo, il boia le mettesse le mani addosso per liberare il collo. Era dunque tutto pronto da tempo, in attesa di sapere quale fosse la loro sorte. Ogni carmelitana era pronta a dare la sua testimonianza fino al sangue.
Il sogno di suor Elisabetta-Battista, la loro consorella di 100 anni prima, che aveva profetizzato il martirio collettivo del convento, le aveva vedute “seguire l’Agnello” in abiti carmelitani: ora dunque madre Teresa di Sant’Agostino (al secolo Madame Lidoine), aveva fede che – se martirio doveva essere – non sarebbe stato in abiti civili, anche se al momento, vista la proibizione rivoluzionaria, ciò pareva impossibile.
Mme Lidoine non si sbagliava.
Un dì il comitato rivoluzionario di sorveglianza di Compiègne irruppe negli appartamenti delle suore. In due giorni di perquisizioni raccolsero le “prove dei crimini” delle carmelitane contro la Rivoluzione: stavano cercando di mantenere la loro vita comunitaria di consacrate nonostante il divieto che era stato loro imposto. Le suore furono portate in carcere e si decise di chiedere al Comitato di Pubblica Sicurezza d’inviarle al Tribunale Rivoluzionario di Parigi per essere processate.
Sappiamo cosa accadde grazie a documenti di benedettine inglesi, prigioniere a Compiègne con le carmelitane, conservati negli archivi dell’Abbazia di Stanbrook.
La risposta del Comitato di Pubblica Sicurezza giunse a Compiègne dopo 21 giorni di prigionia, il 12 luglio 1794: il trasferimento delle religiose a Parigi doveva essere immediato. Il sindaco di Compiègne ordinò subito di radunarle, ma proprio quel 12 luglio le carmelitane avevano finalmente ottenuto il permesso dai carcerieri di lavare i propri abiti civili – dopo 21 giorni! – e quindi, non avendo un cambio, avevano avuto il permesso di rivestire gli abiti monastici finché gli indumenti civili non si fossero asciugati. Partirono dunque in abito monastico per Parigi, dove furono rinchiuse alla Conciergerie in attesa di processo, che avvenne quattro giorni dopo, il 16 luglio 1794, festa principale dell’ordine carmelitano: Nostra Signora del Monte Carmelo.
Ecco la serie di straordinarie concatenazioni grazie a cui le carmelitane, com’era stato profetizzato, morirono nel bianco mantello del profeta Elia: l’armatura della loro incrollabile fede. Bene ha fatto Emma Dante a raffigurarla come una vera, ferrea armatura coronata di elmetto e aureola.
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