di MONALDI & SORTI
Mix vincente col duo Michele Mariotti – Emma Dante.
La direzione di Michele Mariotti ha dato agilità alle sequenze ritmiche, le ha coordinate con assoluto rigore all’interno della macchina orchestrale, ha garantito la necessaria accuratezza timbrica nei fiati. Ha mantenuto un equilibrio tra l’umore cupo della partitura di Poulenc, e quel suo certo virtuosismo da sapiente cosmopolita che riaffiora sempre. Infine, attraverso la massima economia dinamica, ha nobilitato quella sorta di Bolero della morte, esteticamente piuttosto problematico, con cui l’opera si conclude.
La dedica iniziale al quartetto Monteverdi-Verdi-Debussy-Mussorgskij è un’eclettica dichiarazione d’amore per il recitar cantando rinascimentale, per la vocalità cantabile (vedi madame Lidoine) di Aida e Trovatore, l’ineffabile colore orchestrale debussiano e infine per le atmosfere lugubri alla Boris Godunov e Kovàncina, compreso il tocco spettrale delle campane. Tutte e quattro riecheggiano nei Dialogues, sempre però riformulate da Poulenc in chiave personale. Non mancano sapienti pennellate di Stravinskij (Oedipus Rex), Berg, Prokofiev e Bartok
La chiarezza della bacchetta di Mariotti in verità ha fatto uscire anche altre suggestioni timbriche: da De Falla a Walton passando per Gerswhin. Ottimo anche l’attacco stile Lully del secondo atto.
In complesso il livello musicale è stato di assoluta eccellenza, bisogna dirlo. Applausi e chiamate calorosi ed entusiastici, magari un po` intimiditi dalla fine solenne e agghiacciante di quest’opera che non concede distrazioni. Ovazione per la Antonacci.
Impossibile soffermarsi su tutti gli interpreti, diciamo almeno che La Blanche di Corinne Winters è solida, professionale, robusta. Un pathos molto contenuto fa capolino nel duetto con il bravo chevalier De La Force di Bogdan Volkov («Pourquoi vous tenez-vous ainsi depuis vingt minutes les yeux baissés?») nel II atto. Eccellente la madame Lidoine di Ewa Vesin, anche negli acuti insidiosi (ad esempio quello dell’indirizzo fatale nel III atto, «Rue Saint Denis»). Nel cast trionfava sicuramente Anna Caterina Antonacci: la sua bella voce matura e musicalmente profonda si è “rotta” in sospiri e singhiozzi così ben calibrati, durante la scena madre dell’ex priora morente. Ottima anche la suor Constance di Emöke Baráth.
Emma Dante è riuscita nel compito non meno difficile di inserire il dramma delle carmelitane, che si dipana appunto quasi esclusivamente in dialoghi, in un contesto scenico. Già solo la scena della morte, nel suo letto, dell’anziana superiora, Madame de Croissy, è un epicentro profetico: agonizzante, prevede la devastazione del monastero. Che sia una scena del tutto inventata (la vera Mme de Croissy aveva solo 49 anni, era maestra delle novizie e salì al patibolo con le altre) le dà grande poesia, in quanto riassume le paure dei tre autori: di Poulenc di fronte ai ripetuti lutti che devastavano la sua vita, ma anche le paure di Bernanos, morente quando scriveva il dramma, e infine le paure di Gertrud von Le Fort che nel 1931 vedeva la Germania precipitare nel nazismo. Bella l’idea di portare in scena l’ex priora morente in un’amaca di lenzuoli, sorretta dalle consorelle, così come la “camicia di contenzione” (rosso fuoco, colore dei martiri) in cui viene inviluppata, mentre si abbandona alla disperazione. L’inizio del III atto si discosta fortemente dalle indicazioni di Poulenc (nessuna distruzione nella cappella dopo il passaggio dei Rivoluzionari), nella biblioteca di casa De La Force (anche qui niente devastazione ad opera dei rivoltosi) e nella prigione (nessuno squallore e niente sbarre di ferro, trasformate invece in aeree cornici di legno). Durante l’esecuzione, la ghigliottina è trasformata in semplici tendine bianche che si abbassano come uno stridulo sipario su ogni giustiziata: ognuna scompare al nostro sguardo, ma resta viva in una più alta dimensione. Azzeccata è anche la sobria gestione scenica del celebre finale, davanti al boia. Limpida la scelta di identificazione mistica di Blanche con il Redentore, ponendola sulla Croce (ma il collo, al colpo di lama, le si spezza perché è pur sempre un essere mortale).
Gli interrogativi di Emma Dante però non si accontentano della finzione operistica: “Chi erano le carmelitane prima del voto? Che tipo di donna si cela dentro la loro tunica da suora?” E infatti in scena fanno più volte capolino i ritratti delle eroine, ritratte nella loro iniziale esistenza borghese, per ricordare che anche il più inscalfibile cuore di religiosa batte nel petto d’una donna come tutte le altre.
Le vicende biografiche delle suore sono ricche di testimonianze oculari. Qualche giorno fa, nel secondo appuntamento di questo ciclo di riflessioni, abbiamo visto a grandi linee l’evoluzione spirituale delle quattro carmelitane (su 19) la cui vocazione era stata spinosa e sofferta. Quelle suore, cioè, che – come ebbe a dire Madame Philippe (suor Maria dell’Incarnazione) erano entrate in clausura “par appel et non par attrait”, “per chiamata e non per attrazione”. Una “chiamata” dunque non proprio zuccherina.
Vediamo ora, in questo quarto contributo, e nel prossimo, qualche esempio delle altre vocazioni delle carmelitane martiri di Compiègne. Le storie individuali di queste donne parlano da sole. Impossibile passarle tutte in rassegna in questa sede. Prendiamo quelle citate nell’opera.
Iniziamo dalla novizia, suor Costanza, la più giovane, appena 27 anni. Nel melodramma la vediamo penultima sul patibolo, prima di Blanche. Storicamente fu l’ultima a entrare in convento e la prima a salire i gradini del patibolo, calcando i quali dalle sue labbra sgorgò spontaneamente il Laudate Dominum a cui le sue consorelle si unirono nell’irreale silenzio della piazza.
Era l’ultima novizia formata da madame de Croissy. Al secolo, Marie-Geneviève Meunier. Alla sua ultima ora, e senza nulla di ufficiale, ha infine pronunciato i suoi voti ai piedi del patibolo nelle mani della priora. Era rimasta novizia per ben sei anni: avendo preso l’abito il 15 dicembre 1788, con il consenso di Madre Teresa di Sant’Agostino avrebbe dovuto emettere i voti perpetui il 15 dicembre 1789. Tuttavia, il 28 ottobre, il decreto che ordina la “sospensione provvisoria” dei voti religiosi ha impedito questa professione. Era chiaro che la soppressione della vita religiosa in Francia era un obiettivo specifico, anzi urgente, del Nouveau Ordre politico fin dall’inizio della Rivoluzione. Non è stata però la Rivoluzione a inaugurare questo tipo di iniziativa in Europa. Giuseppe II d’Austria, fratello di Maria Antonietta, aveva già chiuso i Carmelitani nei Paesi Bassi austriaci. Madame Louise (la carmelitana ultimogenita del re Luigi XV), insieme ad altre priore in Francia, accolse le sorelle belghe rifugiate, soprattutto perché portavano con sé le preziose reliquie di Madre Anna di Gesù, la loro comune fondatrice spagnola e priora del primo Carmelo in Francia.
Quello che stava accadendo in Francia era quindi l’intensificazione di una contestazione generale, non solo della validità della vita consacrata nella società occidentale moderna, ma prima di tutto della legittimità dei diritti del cristianesimo sulla civiltà europea: questa religione, nata dall’antico giudaismo, aveva ancora senso nei tempi moderni?, le nuove idee filosofiche e il progresso scientifico non hanno forse aperto prospettive più significative?
Non c’era dubbio che la sospensione provvisoria dei voti religiosi del 28 ottobre fosse solo il primo di una serie di colpi che sarebbero stati fatali per la vita consacrata nel Paese. Questi colpi, sferrati con uguale forza e insistenza, nessuno dei quali di per sé fatale, ricordavano il potente colpo di spranga brandito dal boia che spezzava una vittima sulla ruota. Infatti, dopo il colpo iniziale inferto il 28 ottobre, un decreto anticristiano seguì l’altro. Il decreto del 2 novembre, che assegnava alla Nazione la proprietà di tutti i beni della Chiesa, privò immediatamente le comunità religiose della loro indipendenza finanziaria e le costrinse a dipendere dal governo. Ogni trasgressione della legge che vietava nuove professioni religiose avrebbe privato la comunità dissenziente di ciò che il nuovo governo concedeva loro per sopravvivere.
Madame Lidoine si trovò di fronte a questo dilemma quando considerò la possibilità di far prendere i voti a suor Costanza il 15 dicembre 1789. Se la comunità voleva continuare, doveva obbedire alla legge. Altrimenti, le sorelle religiose sarebbero state tutte gettate in strada. Scegliendo di obbedire al decreto, Madame Lidoine preservò l’unità della sua comunità durante i ventidue mesi di esilio, cosicché al termine di essi fu in grado di condurre tutto il suo Carmelo al coronamento mistico della sua vera vocazione.
Suor Costanza aveva tuttavia anche un secondo fronte di lotta contro il mondo: quello con la sua famiglia. Sappiamo da una lettera di madre Lidoine che i genitori della novizia, non avendo né simpatia per la sua fede né comprensione per la sua vocazione, acconsentirono al suo ingresso nel convento carmelitano solo con riluttanza. Così, quando fu chiaro che suor Costanza non avrebbe mai potuto prendere i voti perpetui, mandarono il fratello a Compiègne per riportarla a casa con la forza. Dopo inutili tentativi di persuasione, il fratello della giovane suora ricorse al tribunale. Lì la novizia implorò nei termini che Madame Philippe ci ha riferito:
«Signori, sono entrata qui solo con il consenso dei miei genitori. Se vogliono portarmi fuori solo perché la loro tenerezza è allarmata dai pericoli che potrei correre se volessi restare qui, li ringrazio. Ma nulla, nient’altro che la morte, può separarmi dall’unione con le mie madri e le mie sorelle. E tu, fratello mio, che probabilmente avrò il piacere di vedere per l’ultima volta, spiega ai nostri cari genitori che l’indifferenza non ha nulla a che fare con il mio rifiuto di cedere ai loro desideri (che anzi mi ferisce molto il cuore addolorarli), ma che non possono pensare che sia sbagliato che io segua i dettami della mia coscienza. Supplicali, implorali a nome mio di non essere preoccupati per me, perché non può accadermi nulla se non ciò che Dio vuole permettere, e a questo proposito sono perfettamente in pace.»
Convinta del suo libero arbitrio, la giustizia non la costrinse a tornare con il fratello nella casa di famiglia a Saint-Denis. Madame Lidoine, per evitare al suo tenero animo una lunga agonia, decise che fosse lei la prima sul patibolo:
«Permission de mourir, ma mère?»
«Allez, ma fille!»
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