170 ANNI FA LA STRAGE DEI MARTIRI DI BELFIORE CAPITANATI DAL DON BOSCO MANTOVANO: DON ENRICO TAZZOLI. MA IN AUSTRIA E NELLA CHIESA ANCORA NON SI AFFRONTA LO SPINOSO TEMA
07 Dic
1:14

170 ANNI FA LA STRAGE DEI MARTIRI DI BELFIORE CAPITANATI DAL DON BOSCO MANTOVANO: DON ENRICO TAZZOLI.
MA IN AUSTRIA E NELLA CHIESA ANCORA NON SI AFFRONTA LO SPINOSO TEMA

di MONALDI e SORTI

Sangue di martiri seme di cristiani, diceva giustamente Tertulliano. Forse pochi sanno che il famoso “non praevalebunt”, pronunciato da Cristo nei Vangeli e spontaneamente affiorante un po’ sulle bocche di tutti (noi inclusi) in questi strani tempi, si basa proprio sul sangue dei martiri, scudo e difesa della cattedra di san Pietro almeno fino all’apostasia anticristica profetizzata nell’Apocalisse di Giovanni.

Il martirio di fede, inoltre, porta direttamente in Paradiso, senza lo scomodo passaggio per i lavatoi purgatoriali. Proclamare dunque le virtù eroiche dei martiri della fede, farli conoscere e permetterne il pubblico culto di intercessione presso Dio (per le mani di Maria mediatrice di tutte le grazie), è di basilare importanza nella Chiesa.

Tuttavia in alcuni casi il Vaticano tentenna, traccheggia, ritarda anche di secoli, quando si tratta di martiri procurati da potenze politiche non del tutto spente bensì viventi ancor oggi in Stati che se ne riconoscono in qualche modo eredi: tale è il caso, ad esempio, della Francia (erede della rivoluzione francese, Terrore incluso) e dell’Austria (erede dell’impero asburgico, Radetzky incluso).

Come abbiamo avuto modo di ricordare poco tempo fa nel ciclo di riflessioni sulle carmelitane martiri di Compiègne, ghigliottinate dalla Grande Terreur il 17 luglio 1794, non è stato canonizzato ancora nessuno delle centinaia e centinaia di religiosi giustiziati per la loro fede da Robespierre & C. Abbiamo, al massimo, dei beati. È notizia di Famiglia Cristiana dei giorni scorsi che Bergoglio quest’anno abbia sbloccato il percorso delle carmelitane verso la santificazione. Vedremo.

Un altro caso ricorre oggi, 7 dicembre. Si tratta dei martiri di Belfiore, tra i quali abbiamo ben due sacerdoti: don Enrico Tazzoli e don Giovanni Grioli. Martiri della patria e al contempo, va sottolineato, anche della fede: avevano constatato sul campo che la dottrina sociale della Chiesa non poteva essere realizzata alle condizioni vessatorie imposte dal giogo austriaco, vista l’incorreggibile miopia con cui Vienna rispondeva ai moniti italiani di non tirare troppo la corda.

A dare il nome al loro sacrificio è la valletta, detta Belfiore, in cui hanno trovato la morte. A Mantova, tra dicembre 1852 e primavera 1853, gli Austriaci perseguitarono, arrestarono, torturarono e giustiziarono centinaia di patrioti italiani nei modi più efferati. Il giovane Kaiser Francesco Giuseppe mandò il conto del boia alle madri, mogli e sorelle dei condannati, che erano andate a supplicarlo prima dell’esecuzione. I cadaveri vennero sepolti in luogo segreto per impedire il funerale, e vennero ritrovati per caso 14 anni dopo da due muratori, padre e figlio, incaricati da Radetzky di fortificare le mura di Mantova in vista dell’assalto italiano. Celando il ritrovamento alla sorveglianza militare austriaca, addussero a pretesto di voler lavorare anche di notte e mandarono a nanna i soldati; poi traslarono le spoglie nel cimitero mantovano, dove le salme dei martiri dovettero attendere altri sei mesi, fino alla liberazione di Mantova dallo straniero, per avere il meritato funerale.

Il nucleo centrale di condannati venne impiccato a Belfiore, ed era guidato dal sacerdote quarantenne don Enrico Tazzoli. Oltre a lui il 7 dicembre furono condotti alla forca il medico Carlo Poma, il giovane aristocratico Bernardo Canal, il patriota Angelo Scarsellini e l’impiegato Giovanni Zambelli. Un mese prima, il 5 novembre, era stato fucilato don Giovanni Grioli, appena trentenne, per detenzione di volantini patriottici che incitavano all’evasione fiscale dai balzelli austriaci.

Il dominus della rete “eversiva“ era il prete mazziniano Tazzoli. La Segreteria di Stato vaticana permise che venisse spretato e giustiziato, ma l’episodio creò una gravissima crepa nei rapporti tra Papato e Impero. Dopo i fatti di Belfiore, in tutta Italia Francesco Giuseppe e il maresciallo Radetzky saranno bollati come crudeli impiccatori. Anche i rapporti tra Chiesa e Impero, viste le pressioni a cui dovette cedere la Santa Sede, non saranno più gli stessi.

Le impiccagioni arrivarono con un processo-monstre in cui vennero giudicati 110 attivisti o presunti tali. Ma molti di più furono gli italiani sospettati, pedinati, intimiditi e perseguitati. I metodi della polizia austriaca erano ben collaudati: bastonate, angherie, minacce, e soprattutto la promessa di una condanna più mite per chi “vuotava il sacco“ mentre invece – gli imputati lo avrebbero scoperto sulla propria pelle – il codice penale asburgico prevedeva concessioni solo per chi, al contrario, non risultasse reo confesso.

Don Tazzoli, coodinatore del movimento clandestino mantovano a cui apparteneva anche il giovane don Grioli, era una robusta figura di eroe risorgimentale: attivo nell’apertura di asili per i bambini poveri, si dedicava ad aiutare i disoccupati e le donne abbandonate, e insegnava filosofia e storia in seminario e nelle scuole. Scriveva bellissime prediche (continuò anche in carcere, il vescovo dopo l’esecuzione le pubblicò). Il tutto a soli quarant’anni. Insomma, un don Bosco, capitato però sotto Cecco Beppe “l’imperatore degli impiccati” (come lo definì Carducci) anziché sotto il patriota Cavour. Don Tazzoli con entusiasmo aderì ai movimenti politici antiaustriaci organizzando egli stesso una rete di mutui prestiti (le famose cartelle di Mazzini, che pur essendo in quel momento esule a Londra era in contatto con don Tazzoli). Durante una perquisizione in casa del sacerdote, che già si era segnalato per omelie tutt’altro che sottomesse agli occupanti asburgici, le cartelle vennero trovate dagli austriaci. Ad arrestarlo fu Carl Pichler von Deeben, passato alla storia per aver fatto fucilare senza processo anche un altro grande sacerdote del Risorgimento, il centese Ugo Bassi, nonché Guglielmo Oberdan e Amatore Sciesa.

Tazzoli fu sottoposto a quasi un anno di prigionia tra le più aspre sofferenze. Dopo i primi tre mesi seppe che era morta di crepacuore l‘amatissima madre, con la quale abitava. Gli Austriaci inoltre fecero correre in città la voce che Tazzoli avesse tradito i compagni, spifferando tutti i loro nomi. Quando lo apprese, il sacerdote ne fu sconvolto e mentre lo trasferivano da un carcere all’altro lasciò cadere per terra un bigliettino in cui respingeva disperatamente la calunnia. Per metterlo in difficoltà si cercarono ombre nella sua vita, soprattutto di tipo sessuale. Si cercò di scovare qualcosa di torbido nei rapporti con Camilla Marchi, collega di insegnamento a scuola, e perfino con la zia vedova, dei cui bambini il prete era tutore legale: tutti tentativi andati a vuoto.

La presenza opprimente degli austriaci nella città dei Gonzaga aveva un triste precedente: nel 1630 l’armata imperiale, che contendeva alla Francia di Luigi XIII il controllo sull’Italia del nord, aveva assediato la ribelle Mantova. I cittadini resistettero bravamente, ma vennero traditi da un soldato svizzero che riuscì a far entrare di nascosto gli invasori nelle mura. Gli imperiali avevano ucciso, stuprato e incendiato, saccheggiando e disperdendo i capolavori di Palazzo Ducale, compresa la preziosissima biblioteca: una barbara razzia che Tazzoli ricordò in una sua omelia nel duomo di Sant’Andrea, attirandosi subito le prepotenze e le minacce della polizia asburgica.

La vocazione al martirio di sangue è probabilmente scritto nel DNA di Mantova e dintorni: è la città del “Sacro Sangue”, ossia il Preziosissimo Sangue di Cristo, portato fin lì da san Longino, il centurione convertitosi sotto la Croce e che a Mantova trovò il martirio. Le ampolle, smarrite per un certo tempo, furono ritrovate grazie a Sant’Andrea, apparso in sogno, e si trovano tutt’oggi conservate in Duomo (per questo motivo intitolato all’apostolo), dove vengono esposte il Venerdì Santo.

Gli austriaci per decifrare le cartelle dei prestiti mazziniani sequestrate a Tazzoli, dopo settimane di tentativi, dovettero spedire i documenti a Vienna, dove l’ufficio cifra del servizio segreto militare (il celebre Gabinetto nero) riuscì infine a decifrare il codice: la chiave era il Pater Noster.

Tazzoli non poté negare l’evidenza e fece a sua volta varie ammissioni, cercando però di non aggravare le posizioni di altri imputati e anzi attribuendo a sé le colpe maggiori. E, infatti, in seguito nessuno dei patrioti citati nei suoi documenti poté essere perseguito dalla polizia. Il 24 novembre 1852 l’ultima umiliazione prima della morte: il vescovo di Mantova dovette suo malgrado, su ordine della Santa Sede, privarlo del manto talare e raschiargli col dorso d‘un coltello il palmo delle mani che avevano amministrato l‘Eucarestia: una degradazione alla Dreyfuss. La misura era stata chiesta a gran voce dagli austriaci, perché un religioso poteva essere giudicato da un foro esterno alla Chiesa solo dopo la riduzione allo stato laicale. Il vescovo, monsignor Corti, in realtà aveva scritto a Roma più volte, spiegando che per colpe meramente politiche non era possibile degradare un sacerdote. Il vescovo si era già rifiutato di degradare don Grioli un mese prima, ma gli austriaci lo avevano fucilato ugualmente. Stavolta invece, avevano fatto pressioni a Roma  e da lì arrivò infine (25 ottobre) una frase definitiva per il vescovo: «Deponga qualunque dubbio e proceda alla degradazione, prima che venga eseguita la sentenza!».

L’ordine era firmato da un certo monsignor Luca Pacifici, addetto alla Segreteria di Stato vaticana. Pacifici premise di aver «inteso il venerato oracolo del S. Padre». E se non fu il Papa in persona a dettargli la lettera su una materia così grave, sicuramente se ne incaricò il cardinale Giacomo Antonelli, che di Pio IX era il fidatissimo segretario di Stato. Lo stesso Tazzoli, sgomento, protestò contro il provvedimento palesemente iniquo.

Negli attimi prima dell’impiccagione, un soldato austriaco cercò di strappare dalle mani di padre Tazzoli il crocifisso che teneva premuto sul petto: ennesimo tentativo di violenza ai danni di una coscienza fermissima.

A tutt’oggi non è noto alcun progetto in seno alla Chiesa per riabilitare ufficialmente e formalmente don Tazzoli, degradato senza valido motivo su richiesta di una potenza straniera e tirannica. Allo stesso modo non è nota alcuna proposta per elevare Tazzoli a servo di Dio o a beato: un‘ipotesi che l‘alto livello intellettuale dei suoi scritti (Franco Angeli ha pubblicato le opere del decennio 1842-52), l‘impegno pastorale e la toccante ed eroica esperienza  umana potrebbero senz’altro suggerire.

Il massacro di Belfiore è da sempre uno spunto non solo per la riflessione storica e umana, ma anche per la creazione letteraria e artistica: dalle pagine indignate di Karl Kraus, che in Gli ultimi giorni dell’umanità commentando i fatti di Mantova accusò il Kaiser di aver «rimbecillito gli austriaci», e giustamente vaticinò: «Il conto del boia l’Austria dovrà pagarselo da sola. Dopo la sua esecuzione!». Da ricordare anche il film muto I martiri di Belfiore del 1915 di Romolo Bacchini, pioniere del cinema italiano, e il documentario del 2011 firmata dalla cineasta mantovana Emanuela Rizzotto.

Il sacrificio dei martiri di Belfiore è stato più volte sviscerato dagli studiosi, tuttavia un vero e sistematico lavoro di indagine in archivi pubblici e privati è stato compiuto solo dopo il Duemila grazie allo storico e sociologo Costantino Cipolla, romano di origine ma da tempo docente a Bologna, che ha indagato la figura di don Tazzoli e ritrovato nuove testimonianze del grande dramma di Belfiore in cui si incrociano «il sacrificio personale estremo e l’esemplarità della condanna più cruenta».

Con un decennale work in progress (pubblicato in buona parte presso Franco Angeli), virtualmente inesauribile per le sue ramificazioni ed implicazioni, Cipolla ha portato sul piano della storiografia moderna la materia su cui già esistevano lavori notevoli ma datati, come quelli prodotti durante il ventennio fascista dall’archivista e giornalista Alessandro Luzio (1857-1946).

Nella toponomastica italiana resta giustamente testimoniato il sacrificio di don Tazzoli, e non solo a Mantova (la via accanto al Duomo dove Tazzoli abitava con la mamma): troviamo infatti via Enrico Tazzoli anche a Roma, Torino, Milano, Brescia, Monza, Venezia, Trezzano sul Naviglio, e anche città storicamente estranee allo scenario del 1852 come Oristano o Caserta.

Tuttavia: a quando la riabilitazione ufficiale? Nel 2012 l’allora vescovo  titolare di Mantova, monsignor Roberto Busti, con una bella introduzione al volume curato da Cipolla, Don Enrico Tazzoli e il cattolicesimo sociale lombardo (Franco Angeli), aveva ricordato il suo «spirito di fortezza e insieme di rassegnazione nell’affrontare la condanna crudele e ingiusta senza retrocedere, con la convinzione di non aver operato del male, ma con le lacrime agli occhi, perché non riusciva a comprendere l’allontanamento dalla sua Chiesa, amata e servita per tutta la vita». Un giudizio assai chiaro che sembra quasi richiedere una mossa concreta, per onorare come si deve la memoria dei martiri.

Ma i vecchi rancori sono ferite sempre aperte: quando è arrivato a Mantova come nuovo direttore di Palazzo Ducale, l’austriaco Peter Assmann ha riaperto ai visitatori le antiche prigioni in cui erano stati reclusi i martiri di Belfiore, ma si è scusato con i suoi compatrioti: «Agisco da storico, non da austriaco». Un austriaco ha forse il diritto di nascondere alla memoria i crimini storici dei suoi connazionali? Come a voler scusare Mantova per essere così devota ai “traditori” di Belfiore, ha aggiunto che a Mantova fu anche giustiziato, dai bonapartisti, il patriota tirolese Andreas Hofer.

Ci sono storie che non passano mai davvero e restano sempre politica, senza mai riuscire a essere considerate Storia. Vi immaginate se noi italiani non vedessimo di buon occhio le sacrosante celebrazioni, ad esempio in Somalia o Eritrea, di qualche eroe indipendentista delle nostre ex colonie africane che abbia lottato contro l’invasore italiano?

Una proposta, allora, al cardinal Schönborn, primate di Vienna, che in sé riunisce le due nature di austriaco e principe della Chiesa: perché non si fa promotore di una discussione, in Austria e presso la Santa Sede, per elevare i sacerdoti martiri di Belfiore all’onore degli altari? Farebbe tanto bene, una tale presa di coscienza, al cuore degli austriaci e degli italiani. E della Chiesa.

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