Il Mito figlio del racconto
13 Feb
8:05

Il Mito figlio del racconto

Da Aristotele a Galileo. Come è cambiata la narrazione e perché continua a sedurci. Riuscendo nell’impresa di convincerci che una storia è assolutamente inventata anche se è vera

di

MONALDI e SORTI

Prendiamola alla larga, così da entrare per gradi nell’ordine giusto d’idee.

Galileo è stato il principale artefice della cosiddetta “rivoluzione scientifica” del XVII secolo, dalla quale è nata la scienza moderna. Infatti Galileo viene chiamato il padre della scienza moderna. Pochissimi sanno tuttavia che, nei 90 anni (e 11 Papi) trascorsi da Copernico a Galileo, la Chiesa ha utilizzato le teorie di Niccolò Copernico senza problemi.

Come mai allora Galileo nel 1633 ha dovuto abiurare?

Insegnava a Padova, e invitava i colleghi filosofi a guardare il firmamento dal suo cannocchiale. Uno di questi era Cesare Cremonini. Ma Cremonini si era rifiutato di guardare dentro al cannocchiale di Galileo e gli aveva risposto: “Vi potrei vedere solo lo sporco che c’è sulla lente”. Cremonini aveva detto una cosa molto giusta, aveva voluto significare a Galileo che quanto la scienza crede di scoprire, in realtà è sempre compromesso dall’imperfezione degli strumenti di cui si serve. Migliora la strumentazione, cambiano le verità. Chesterton diceva che la verità della fede non cambia mai perché manca di prove; la verità degli scienziati invece cambia sempre perché viene smentita da altre prove di altri scienziati. Questo diceva Chesterton. La saggezza di Cremonini non fu capita e non viene capita neppure oggi: nel web si ricorda  di Cremonini quasi solo questo episodio legato a Galileo e lo si classifica come il prototipo dell’ottusità accademica che rifiuta di prendere atto della realtà. La realtà. La Verità. Ecco il malinteso: la pretesa della scienza di riuscire ad attingere la verità assoluta.

Le idee sul firmamento, e non solo sul firmamento, che condussero a quello scontro così tremendo e alla famosa abiura di Galileo, non possono essere viste nella giusta luce se non si risale alle loro radici: due filosofi greci, i più famosi d’ogni tempo, Platone e Aristotele.

Secondo Platone bisognava prendere per buone solo le teorie astronomiche che concordano con quanto i pianeti presentano ai nostri occhi. Lo scopo dell’astronomia deve essere unicamente pratico: rendere possibile misurare il Tempo – passato, presente e futuro – prevedendo il moto dei pianeti. L’astronomo secondo Platone deve assemblare movimenti semplici e misurabili per riuscire a fornire un movimento che risulti simile a quello complicatissimo degli astri, il quale, nel suo insieme, di per sé è inconoscibile all’uomo:

Sòzein ta phainòmena, diceva Platone, solo questo importa: “Salvare i fenomeni” o, per tradurre in modo più comprensibile, “Giustificare, spiegare le apparenze”.

Ai famosi filosofi greci non interessava la realtà delle cose. Secondo loro, scopo dell’indagine umana non è scoprire se la Terra ruoti davvero intorno al Sole o viceversa, ma solo trovare un sistema di calcolo che permetta di formulare previsioni ragionevoli ad uso pratico. Perché questo? Perché sapevano bene che dalla Terra possiamo fare solo osservazioni relative, mentre per individuare la vera traiettoria di un corpo in movimento bisognerebbe osservarlo da un punto prospettico assoluto, come ad esempio da un luogo fermo, al di fuori del cosmo. È un po’ come un pittore che abbia davanti a sé una casa, a destra un albero e a sinistra un fiume, e in tal paesaggio debba ritrarre una modella. Se pone la modella tra sé e la casa, vedrà che ella è davanti alla casa. Ma se il pittore si sposta e si piazza davanti all’albero, la vedrà davanti al fiume. E analogamente, se il pittore si sposterà di nuovo e si posizionerà davanti al fiume, vedrà la modella davanti all’albero. Tre posizioni differenti della modella, dunque, ma solo apparentemente, dato che ella non si è mai spostata. È solamente una questione di punti d’osservazione. Così l’umanità: ha a disposizione unicamente punti prospettici relativi. Quindi qualsiasi cosa vedrà nel cielo, non potrà mai dire che essa sia davvero così come appare.

A questo modo la pensavano non solo il grande Platone, ma anche personaggi minori come Posidonio o Eraclide Pontico. Pochissimi furono in disaccordo, come Adrasto d’Afrodisia o Teone di Smirne, i quali invece desideravano conferire valore assoluto, intrinsecamente vero, a quegli artifici di calcolo, a quelle ipotesi fittizie e puramente strumentali.

Ricorderete tutti ancora, dai tempi della scuola, che Galileo diceva una cosa molto semplice: in geometria, l’assurdità di una proposizione comporta l’esattezza della proposizione contraria. Se tra due sistemi concorrenti uno si rivela errato, allora l’altro sarà giusto.

E’ una regola molto semplice, ma non universalmente applicabile: infatti, se delle ipotesi concordano con le apparenze del mondo che percepiamo con i sensi, o con uno strumento come  il cannocchiale, se ne può concludere che esse possono essere vere, ma non che lo sono certamente. Lo sarebbero solo se prima si riuscisse a provare che nessun’altra ipotesi, magari non ancora scoperta, può concordare altrettanto bene con le apparenze. Si obietterà che è impossibile dimostrare una cosa del genere. Infatti. Ecco spiegato forse per quale motivo gli antichi pensatori greci si accontentavano di teorie che concordassero con i fenomeni del mondo sensibile, e rinunciavano ab initio, sin dal principiare dell’indagine, a ricercare la reale essenza delle cose.

Tolomeo, secondo il cui modello è il Sole a girare intorno alla Terra, aveva concentrato tutto il suo sforzo a dimostrare che i movimenti multipli e sommamente complessi dei pianeti, ch’egli compone e descrive per determinare le traiettorie degli astri nella sua grande opera, l’Almagesto, non hanno alcuna realtà e sono mere astrazioni: non esistono nei cieli, ma solo nel ragionamento dell’astronomo. Attenzione: questo non aveva impedito a Tolomeo di calcolare e prevedere i percorsi dei pianeti, e di predisporre le tavole numeriche di cui tutta l’umanità si sarebbe servita per secoli e secoli.

Questo è molto importante: ci insegna la differenza tra conoscenza e padronanza, tra ipotesi STRUMENTALI e ipotesi che invece ambiscono a essere VERE, REALI.

L´uomo, per sua natura, può padroneggiare il mondo che lo circonda e le sue leggi apparenti, o almeno utilizzarle per vivere. Ma nulla ci indica con certezza che l´uomo sia in grado di conoscere l’essenza vera delle cose. E soprattutto, nulla dimostra che una tale conoscenza sia indispensabile alla vita umana. Nicolò Cusano nel suo De docta ignorantia, diceva che è impossibile che un´intelligenza finita possa acquisire verità esatte.

Quale conclusione dobbiamo trarre da ciò? Che l´essenza delle cose, che è la vera natura degli esseri, non potrà essere colta da noi nella sua purezza. Ma, si potrebbe forse obiettare, ad esempio, che se non si conoscesse il corpo umano non si potrebbe curarlo. Attenzione: si conoscono le leggi apparenti del corpo umano, ma non esiste alcuna dimostrazione assoluta che esse costituiscano anche la sua reale essenza. Ancora una volta, non si dovrebbe confondere l´essenza vera delle cose con la semplice concordanza dei fenomeni apparenti con una teoria. Per non parlare di quante teorie, considerate verissime, si sono dimostrate fallaci col passare del tempo.

Ora, come si è potuti passare nei secoli da quella prudenza dei pensatori greci alla pretesa moderna di voler appurare tramite la scienza la reale essenza delle cose? Come mai alla ricerca scientifica non è più bastata l’acquisizione STRUMENTALE della padronanza sui fenomeni della natura? Come si è potuto passare da quel metodo che oggi in filosofia della scienza si definisce strumentalismo al metodo detto del realismo?

 La saggia visione dei pensatori greci era molto conosciuta anche fuori dalla Grecia e da Roma, per esempio in Arabia. E fu proprio dagli Arabi che arrivò una svolta assai importante. Ma in tutt’altra direzione …

Gli Arabi avevano un modo completamente diverso di affrontare i nodi logici e di pensiero: agli Arabi importava soprattutto dare immagini concrete ai corpi celesti e al loro moto, volevano una teoria che potesse essere rappresentata tramite oggetti modellati dall’arte del tornitore. Gli Arabi hanno cercato di vedere e toccare ciò che i pensatori greci avevano dichiarato essere puramente fittizio e astratto; hanno voluto rendere tangibili, percepibili ai sensi della vista e del tatto, mediante sfere solide che girano, i movimenti apparenti dei pianeti che Tolomeo e i suoi successori consideravano puri artifici di calcolo.

Per lungo tempo, in realtà, gli Arabi si erano limitati ad esporre l’Almagesto, a riassumerlo, a commentarlo, a costruire delle tavole che permettessero di applicarne i princìpii. Non hanno esaminato in alcun modo il senso e la natura delle supposizioni che reggono tutto il sistema di Tolomeo. Invano si cercherebbe, fino al IX-X secolo, ad esempio negli scritti del persiano Abulwafa (940-998), dell’uzbeko Alfraganus (?-861) o dell’assiro Albatenius (858-929) il più piccolo accenno al grado di realtà che conviene attribuire ai moti apparenti degli astri. Il primo a farlo compiutamente fu – attorno all’anno Mille – Alhazen (965-1040), nativo di Bassora in Iraq. Alhazen, anch’egli incline al bisogno di dare concretezza ai ragionamenti astratti e fittizi dei greci, si scaglia contro quegli astronomi “che esaminano i movimenti degli astri in maniera puramente astratta” e vuole fornire una spiegazione SOLIDA, che si possa tornire e scolpire in sfere solide a rappresentare i pianeti, e che possano essere assemblati in congegni meccanici che ruotino gli uni sugli altri a raffigurare le sfere celesti, i moti degli astri: “una rappresentazione più comprensibile all’intelligenza, PIÙ VERA”, la definisce Alhazen. Ecco, il binomio: solido, tangibile = vero. Una ipotesi astronomica per gli Arabi più è tangibile più è vera. Le ipotesi astratte, fittizie, anche se salvano bene i fenomeni, vengono sentire dagli Arabi come false. Eccolo, il peccato originale: le ipotesi devono essere vere. Qui Alhazen si ricongiunge alla stessa famiglia intellettuale di Adrasto di Afrodisia e Teone di Smirne: le ipotesi astronomiche DEVONO essere anche VERE. Ma qui cominciarono i problemi: se si dichiara una cosa VERA si esce dall’ambito diciamo artigianale dell’astronomo e si entra in quello sacro del filosofo… Il problema è che all’epoca ormai la dottrina professata dalla maggior parte dei filosofi dell’Islam era quella di Aristotele, “il maestro di color che sanno”, insegnata dalla cosiddetta scuola peripatetica.

E fu un problema grosso: infatti  secondo Aristotele il cielo è formato da sfere concentriche, incastrate esattamente le une nelle altre. Questo perché secondo Aristotele il cielo era luogo di perfezione, e la perfezione è rappresentata solo ed esclusivamente dal cerchio. Che questa teoria non corrispondesse affatto con i dati dell’osservazione e non fosse affatto buona per calcolare e prevedere il moto dei pianeti, ai filosofi aristotelici non importava. Le sfere inoltre rappresentavano una macchina celeste che si lasciava mirabilmente scolpire, intagliare e modellare nei legni, nei marmi e nei metalli più pregiati da parte degli artigiani arabi. Il forte bisogno degli scienziati arabi di dare immagini alle astrazioni del pensiero era così esaudita.

Ma a questo punto i moti complessi dei pianeti come calcolati da Tolomeo nel suo Almagesto (moti ellittici, eccentrici ed epiciclici) non vanno più bene: e non importa se sono gli unici che permettono calcoli e previsioni astronomiche esatte. Siamo negli anni attorno al 1100-1200 e Averroè (Ibn Rushd di Cordova, 1126-1198), Avempace (Ibn Baghiah, di Saragozza, 1095-1138), Alpetragio (nur ad din al Bitrugi, marocchino: ?-1204), Abubacer (Ibn Tufayl, andaluso, 1105-1185), un’intera armata di teorici arabi si schiera contro le scuole di Tolomeo e Platone, per affermare il pensiero di Aristotele.

Secondo loro, i pianeti si muovono così come ha detto Aristotele, anche se questo cozza palesemente contro i dati dell’esperienza. E Aristotele, secondo gli Arabi, ha detto che i pianeti formano orbite perfettamente circolari e concentriche, per cui così dev’essere e basta; anche se i nostri occhi e i calcoli matematici ci dicono tutt’altro. L’origine del dogmatismo è tutta qui; la dottrina aristotelica tra gli Arabi è seguita con una devozione così adorante che Aristotele viene detto semplicemente Il Filosofo; Averroè, che aveva dedicato tutta la vita a scrivere commenti sul pensiero del maestro, è soprannominato Il Commentatore.

Alla fine dunque gli Arabi la spuntarono: ripetuto all’infinito, si diffuse il principio che le ipotesi astronomiche debbano essere conformi alla dottrina filosofica.

I cristiani, intanto, non erano rimasti indenni dalle dottrine di Alpetragio. Si scatenò infatti la battaglia in Occidente, anche a causa dell’enorme peso che Aristotele aveva assunto all’interno della Chiesa. La dottrina di Alpetragio in realtà non si accordava per niente con i fenomeni: i suoi risultati non coincidevano affatto con i moti apparenti dei pianeti che si osservano in cielo. Si schierò però con la visione strumentalista e i moti apparenti di Tolomeo San Tommaso d’Aquino. Per questo motivo, sebbene scossa da tremendi attacchi, la filosofia degli astronomi greci era infine riuscita in Europa a mantenere integro il suo princìpio fondamentale: le ipotesi astronomiche devono concordare con i fenomeni. Principio detto, come abbiamo visto, dello strumentalismo: la ricerca scientifica ha scopo puramente strumentale, cioè di acquisire padronanza dell’uomo sul mondo. Le cose non cambiarono nei due secoli successivi. L’idea così chiara dei pensatori greci riguardo alla natura puramente strumentale e mai reale delle ipotesi che molti avevano recepito nel Medioevo e all’inizio del Rinascimento, finisce per oscurarsi con l’arrivo di un fattore imprevedibile: Lutero.

Lutero riesce in pochi anni a spazzare via lo strumentalismo, sotto il cui tetto convivevano pacificamente da secoli scienza e fede. La prudente visione della scienza che era stata di Alberto di Sassonia e Gemma Frisio verrà sostituita da Lutero col realismo ossia, la ricerca scientifica deve scoprire la realtà assoluta del mondo, ha uno scopo non solo di padronanza ma anche di conoscenza del vero assoluto. Il realismo non tarderà – come ogni falsa dottrina – a frantumarsi in rivoli contrapposti… e lo vedremo appunto nel caso Galileo, dove avevano torto sia Galileo che i suoi inquisitori…

Infatti Lutero tuona contro tutto e tutti: tolemaici, copernicani, cattolici e persino contro i suoi stessi uomini. Tutti rei di separare la teologia dalla scienza. A suo giudizio sono empi e corrotti anche e soprattutto i papi, che seguono lo strumentalismo di Tolomeo e considerano utile qualsiasi ipotesi che concordi con i risultati dell’esperienza, anche quando l’ipotesi contraddica le teorie di Aristotele e le Sacre Scritture come appunto la teoria eliocentrica di Niccolò Copernico.

Ancora una volta è il dogma che deve trionfare…

Ben presto gli scienziati tedeschi si ritrovarono a dover contraddire se stessi e i propri scritti se volevano aver salva la pelle dalla furia di Lutero. Melantone non ha vergogna di scrivere da una parte che le teorie di Copernico sono ineccepibili, e dall’altra dichiara in nome della filosofia e delle Scritture, che la Terra non si muove. Kaspar Peucer, che meno di vent’anni prima aveva difeso a spada tratta l’inconoscibilità delle cose celesti, ora si scaglia contro le teorie di Copernico e le condanna in quanto “assolutamente contrarie al vero”.

Anche grandi astronomi invertono la rotta: Tycho Brahe, protestante, squalifica Copernico perché contrastante con Aristotele e con la Sacra Scrittura.

Ormai il vicolo cieco – su pressione di Lutero – è stato imboccato.

Questo infatti, col tempo, provocò una reazione uguale e contraria nell’intimo degli scienziati che aderivano alle teorie eliocentriche di Copernico, reazione che col tempo venne sempre più esternata: ossia il distacco sì dallo strumentalismo e l’adesione al realismo propugnato da Lutero (e latente in Europa fin dai tempi di Alpetragio, m.1204), ma un realismo di tipo moderno, un realismo scientifico, che rifiutava il dogma sia esso filosofico che religioso. E che quindi diventò una forza uguale e contraria a quella del realismo dogmatico.

Anche i copernicani iniziarono a sostenere che le ipotesi astronomiche devono essere vere e non fittizie, ed affermarono che l’eliocentrismo fosse appunto reale, ossia che la terra si muoveva realmente attorno al sole. Dissero che il geocentrismo non era vero, dissero che le orbite circolari di Aristotele non erano vere. Così facendo giunsero allo scontro potentissimo e frontale con i dogmi imposti da Lutero.

Ormai il danno è fatto, l’astronomia è caduta in mano al dogma: dogma scientifico da una parte, e aristotelico dall’altra. Nel mondo protestante, per capire com’è fatto l’universo non basta più fare ipotesi di lavoro, bisogna che queste ipotesi siano vere secondo Filosofia e Religione. Le ipotesi non sono più strumentali, fatte per raggiungere un fine pratico: esse devono essere reali, e precisamente reali secondo i fumosi ragionamenti dei filosofi. In pochi anni, nei paesi soggetti alla Riforma, si è passati dallo strumentalismo al realismo, dalla libertà di pensiero alla repressione.

Qui avviene la svolta. Gli eretici protestanti sono così rigidi e severi che puntano il dito contro lo strumentalismo della Chiesa di Roma, accusandola di permettere idee in contrasto con Aristotele e le Sacre Scritture. A Roma domina lo smarrimento. Che fare? Di certo non ci si può lasciar scavalcare da Lutero. Anche i Cattolici, allora, fanno marcia indietro. Lo scienziato gesuita Cristoforo Clavio, che prima citava ammirato i risultati delle ricerche di Copernico, quando ristampa le sue opere inserisce rilievi contro l’eliocentrismo. In tal senso comincia a mutare d’abito anche il Sant’Uffizio, che prima, ai tempi di San Roberto Bellarmino, non aveva nulla da obiettare sull’uso pratico dell’eliocentrismo. Così, quando si arriva al processo a Galileo, allo scienziato toscano si proibisce di sostenere l’ipotesi di Copernico.

Il realismo scientifico, eliocentrico, di Galileo si scontrò così contro l’Inquisizione che abbracciava il realismo dogmatico, geocentrico.

Questo segnò la fine dello strumentalismo, dentro e fuori la Chiesa, e fu l’inizio della doppia e contrastante egemonia dei due nemici per la pelle: il realismo scientifico del mondo laico e quello dogmatico del mondo ecclesiastico. Tra i due litiganti, appunto, il terzo muore…

Uno scontro tra due “sacralizzazioni”, quella della scienza da una parte e quella del dogma dall’altra, scontro che si ritrova periodicamente ancora oggi sulle pagine dei nostri quotidiani.

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