Canfora, Dante, il Messia e il caso (che non esiste)
19 Gen
9:57

Canfora, Dante, il Messia e il caso (che non esiste)

di MONALDI e SORTI

Il lapsus di Luciano Canfora che, in risposta al ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, segnalava una presunta permanenza nell’Indice dei libri proibiti ancora ai tempi di Paolo VI del De Monarchia di Dante (mentre l’opera fu riabilitata già nel 1881 da Leone XIII), lo abbiamo scoperto per caso: stavamo per pubblicare la riflessione qui sotto, su uno splendido saggio dell’emerito grecista, quando, facendo per scrupolo una ricerchina web su eventuali ultime news a lui relative, ci imbattiamo nel suddetto svarione storico. Adesso, passato lo choc iniziale, sospetteremmo piuttosto si tratti d’un malinteso redazionale, magari dettato dalla fretta di andare in stampa (ne sappiamo qualcosa: 30 anni fa fummo  imberbi giornalisti di redazione): Canfora avrà più probabilmente detto che il De Monarchia è rimasto secoli all’Indice, che solo sotto Paolo VI fu abolito. È vero che, “come diceva Confucio, i grandi uomini inciampano non sulle montagne bensì sulle tane delle talpe” (non leggiamo Confucio: è una battuta della celebre operetta sino-viennese di Franz Lehár); tuttavia una lama affilata com’è la preparazione di Luciano Canfora non può essere inciampata su una cosa tanto palesemente inverosimile.

Ma bando alle ciance ed ecco qui sotto, con risanata stima verso l’almo grecista di meritata fama internazionale, l’origine del nostro estemporaneo intervento correttivo nella querelle “Sangiuliano – Resto do mundo” :-).

UN LIBRO, uscito nel 2021, incontrato per caso online lo scorso luglio. Acquistato. È l’ultimo libro di Canfora: non vogliamo perderci nulla dei suoi lavori di filologia greca, fin dal colpo di fulmine (malgrado Fruttero e Lucentini lo avessero bollato come “astruso”) per il romanzo breve Convertire Casaubon (Adelphi 2002), sul dogma della transustanziazione secondo il patriarca bizantino Fozio e l’uso molto particolare che ne fecero i gesuiti nell’Europa alle porte della guerra dei Trent’anni. Per non dire degli studi ‘canforiani’ di grecistica, con cui tanto bene nutrimmo alcuni filoni romanzeschi[1].

Dicevamo: libro acquistato di getto. Ma poi dimenticato sotto una pila di altri volumi. L’argomento non rientra al momento nei nostri orizzonti di studio: immersi come siamo da svariati anni nel Dante concepito da Shakespeare, manca la necessaria attenzione per un saggio, ancorché di Canfora, sullo storico ebreo Giuseppe Flavio, nato a Gerusalemme appena 4 o 5 anni dopo la crocifissione di Gesù e dunque testimone preziosissimo degli eventi storici. Il saggio, già dal titolo, ruota infatti tutto attorno alla domanda se Giuseppe Flavio si sia davvero convertito al cristianesimo: La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato (Salerno Editrice).

Una settimana fa, alla sveglia all’alba, ecco che il libro ci fa capolino dalla cima della succitata pila. Inerpicatosi fin lassù forse in seguito a una spolveratina? Chissà. Vederlo e agguantarlo incuriositi è tutt’uno. Era giunto il suo momento.

La conversione di Giuseppe Flavio dall’ebraismo al cristianesimo è accusata da secoli di essere un falso “made in Chiesa”. Luciano Canfora arriva con questo libro a sfatare parecchi miti. Ma non nel senso che ci si attenderebbe dal filologo “ateo e comunista incallito” (come si diceva una volta).

Canfora rientra tra quei glossatori, come il compianto Tullio Gregory, la cui mostruosa preparazione – unita a un intelletto acuminato quali non se ne trovano più nelle generazioni successive (la nostra inclusa) – sopravanza l’ideologia loro malgrado. E si vede tra le righe delle loro opere trasudare – ancor più in Canfora che in Gregory, a dire il vero – il “dispiacere” di dover scrivere verità non sempre in linea con la loro Weltanschauung. Nessun altro si farebbe tanto scrupolo: potremmo citare frotte di accademiche starlette dal piglio mattatoriale impiantate perennemente in tv a pompare simpatiche menzogne.

Nell’opera di Giuseppe Flavio Antichità Giudaiche si trova il celebre passo che parla di Gesù: è il cosiddetto Testimonium Flavianum, in quanto testimonia la storicità di Cristo. È immaginabile pertanto quanta gente si sia levata nei secoli a dire che fosse un falso di mano cristiana. E la Chiesa dall’altra parte della barricata a difenderne l’autenticità. È un grosso difetto degli apologeti cristiani, cercare di annettersi le personalità del passato: “Giuseppe Flavio si era convertito”, “Galileo e Cartesio erano sinceri credenti”, e così via. Come se la credibilità di Dio dipendesse dal maggiore o minore plauso di questo o quel vip della storia.

Ebbene, l’ateo comunista Luciano Canfora – udite udite – ci dimostra incontrovertibilmente che il passo di Giuseppe Flavio su Gesù è autentico! Solo la parte inerente la conversione sarebbe stata interpolata, e lo dimostrano già Girolamo e Origene, secondo cui Giuseppe non era diventato cristiano. Per eccesso di zelo, là dove Giuseppe Flavio diceva di Gesù che “si riteneva fosse il Cristo”, il vescovo Eusebio di Cesarea ci riporta la versione “Ma lui era il Cristo!”, come se Giuseppe si sbilanciasse a sposare l’una o l’altra tesi. Altro passo interpolato sarebbe alla prima riga, dove all’asserzione “Gesù, uomo sapiente” era stato aggiunto “sempre che si debba definirlo uomo”.

Per farla breve, ecco il testo autentico (AJ, XVIII 63-64), che Canfora ha sfrondato dalle aggiunte posteriori di probabile mano cristiana:

In quel periodo appare Gesù, uomo sapiente. Era infatti facitore di opere stupefacenti, maestro di uomini che con diletto accolgono le verità; e attraeva a sé sia molti Ebrei che molti Greci. Era ritenuto essere il Cristo. E dopo che, su denuncia dei nostri notabili, Ponzio Pilato l’ebbe condannato alla croce, non tuttavia smisero di amarlo quelli che per primi lo avevano amato. A costoro riapparve infatti vivo tre giorni dopo. Questa e miriadi di altre cose mirabolanti su di lui avevano detto i divini profeti. E ancora adesso non ha smesso di esistere la tribù dei cristiani che da lui prendono il nome.

Richiuso il libro non crediamo ai nostri occhi: questa è una notiziona! Uno storico gerosolimitano di appena 37 o 38 anni più giovane di Gesù, NON convertitosi al cristianesimo, ci conferma che la vita di Cristo come ce la racconta il Vangelo non è il tanto sospettato frutto tardivo di mistificazioni cristiane sulla figura storica di un rabbi ebreo che in vita nessuno si sognava di considerare il Messia né aveva fatto “opere stupefacenti” o aveva predicato anche ai pagani. Giuseppe è nato e vissuto a Gerusalemme in piena predicazione apostolica, già i suoi genitori avranno potuto conoscere Cristo, ascoltarlo predicare nei cortili del Tempio alle feste comandate, saranno magari accorsi sugli impervi assolati viottoli sassosi del Golgota per veder passare, e cadere, Gesù sotto la croce e assistere alla crocifissione tra la numerosa folla presente e infine, in capo a tre giorni, udire apostoli, discepoli e discepole riferire di aver parlato col Maestro resuscitato. Canfora non lascia adito a dubbi: stando a Giuseppe Flavio, Gesù, nei tre anni di vita pubblica, faceva miracoli, predicava anche ai pagani, veniva davvero ritenuto il Messia, e i suoi avevano detto di averlo visto risorto tre giorni dopo la crocifissione comminata da Pilato su denuncia dei notabili ebrei.

Quello che ci riferisce Giuseppe Flavio nel testo autentico messo in luce da Canfora è molto più degno di fede in quanto non inquinato da un desiderio di apologetica, anzi piuttosto il contrario. Taluni studiosi ravvisano infatti freddezza nelle parole di Giuseppe, comprensibile da parte di un appartenente al credo che Gesù era venuto a toccare, mutandolo per sempre (Il nucleo originario del Talmud nasce proprio come risposta dei rabbini Tannaim come Sadoq all’avvento di Gesù). Tutto ciò, in ogni caso, pertiene al regno delle congetture. Il fatto certo è quanto davvero scritto dallo storico ebreo e rimesso a nudo da Canfora.

Ora, la domanda sorge spontanea: c’era bisogno, da parte della Chiesa, di volersi annettere a tutti i costi come adepto Giuseppe Flavio? Certo che no. Le testimonianze veridiche dei non convertiti sono le più preziose.

Questo caso esemplare ci riporta alla memoria l’apologetica attorno alla (presunta) fede di Galileo. Anche lì l’apologetica ha annaspato parecchio, facendo più danni che altro. Ne parleremo alla prossima.


[1] Mysterium (2016, quarto volume della saga diplomatico-barocca su Atto Melani), uno dei cui filoni principali verte sulle falsificazioni dei manoscritti greci, e Dante di Shakespeare (2021), nelle cui corpose appendici finali si cita Convertire Casaubon a proposito della diatriba sul dogma della transustanziazione. [ndr]